Non saprei dire quando è cominciata davvero. Forse quella volta che ho cancellato Tinder, o forse prima, quando ho iniziato a sentirmi… stanco, ecco. Stanco di scrivere “ciao come va?” a sconosciute che poi sparivano. Così ho pensato: “forse è più onesto pagare”. Suona male detta così, ma lo pensavo sul serio.
Pagare per sapere cosa aspettarti. Pagare per non dover fingere simpatia quando non ne hai. Perché a volte il prezzo più alto è proprio la delusione — e quella nessuno la rimborsa.
L’ho fatto per un anno. E poi l’anno dopo ho provato il contrario: nessun pagamento, solo incontri “naturali”, tra virgolette. Non per esperimento scientifico (non sono mica un sociologo), ma per vedere dove stava meglio la mia testa.
E la mia testa non è stata molto d’accordo con sé stessa.
Indice:
- 1 Il primo anno (quello pagato con le escort)
- 2 Il secondo anno (quello gratis sulle app di incontri, diciamo)
- 3 Economie parallele
- 4 Un episodio (che preferirei non ricordare)
- 5 L’anno gratis, invece, mi ha insegnato la paura
- 6 Il corpo come bilancio
- 7 Piccola digressione (anzi no, non la chiamo così)
- 8 Dati, numeri, scuse
- 9 Le app di dating come supermercato
- 10 Un’ammissione (non piacevole)
- 11 Forse non è una questione di soldi
- 12 Ritorni involontari
- 13 Conclusione (che non chiude niente)
Il primo anno (quello pagato con le escort)
C’è un sito,che non nomino (anzi si, si chiama Escortforum simile a Escort Advisor) che ti permette di incontrare escort con recensioni, foto, chat criptata, robe così. L’ho trovato un po’ come si trovano le cose su Internet: una notte, insonne, scorrendo link strani.
Ricordo il primo appuntamento come si ricorda un esame universitario. Ansia, eccitazione, paura di non sapere dove mettere le mani (letteralmente). Avevo le mani sudate e un nodo in gola, tipo quando entri dal dentista.
Il costo medio era circa 200 euro a incontro (per un ora), anche se alcuni arrivavano a 300 o più, a seconda della città (Milano, tanto per dire, è cara pure in questo). In un anno avrò speso, boh , 7000 euro? Forse 8000. Non lo so esattamente, e non voglio saperlo con precisione.
La cosa strana è che dopo i primi mesi non pensavo più ai soldi. Pensavo al tempo. Al fatto che ogni volta uscivo con una sensazione di ordine. Tutto era “giusto”: un inizio, una fine, niente equivoci.
Mi sentivo come quando paghi l’abbonamento premium per saltare le pubblicità su YouTube: non è che il contenuto migliori, ma almeno non ti interrompe nessuno.
Però poi, col tempo, mi sono accorto che… qualcosa stava scivolando. Tipo che la mia capacità di desiderare senza condizioni si stava atrofizzando. Quando una persona mi sorrideva gratis, mi veniva da chiedermi “cosa vuole in cambio?”. E non perché fossi diventato cinico — o forse sì, un po’ sì.
C’era anche un’altra cosa, più sottile. La sensazione di essere trattato bene perché avevo pagato. Come quando entri in un ristorante costoso e il cameriere ti chiama signore. Ti senti potente, ma è un potere che dura finché non paghi il conto.
Una volta — era luglio, faceva un caldo assurdo — una ragazza mi ha detto, mentre ci vestivamo: “Tu sembri uno che non chiede mai niente”. Mi ha colpito. Non so se fosse un complimento o una diagnosi.
Il secondo anno (quello gratis sulle app di incontri, diciamo)
L’anno dopo, per orgoglio o per noia, ho deciso di smettere. Avevo letto da qualche parte (forse su Fanpage? o forse su un forum) che il 37% delle persone che comprano sesso lo fa per solitudine, non per desiderio. Mi ci sono riconosciuto troppo e ho pensato: basta.
Così ho riaperto le app. Tinder, Hinge, Bumble, e anche OkCupid, per nostalgia dei tempi andati.
Ho riscoperto la gratuità come fatica. Scrivere, aspettare, farsi piacere, rispondere. Ore intere a cercare di dire qualcosa di non banale. Ho imparato che “gratis” non è mai gratis davvero: paghi con attenzione, con energia, con la voglia di essere interessante.
E anche con la frustrazione.
Una volta ho passato 3 settimane a scrivere con una ragazza che alla fine mi ha detto “mi sembri troppo serio per me”. Tre settimane. Ventuno giorni di meme, battute, domande profonde, solo per finire con un “sei troppo serio”.
Mi è venuta voglia di mandarle una fattura.
Economie parallele
Facendo due conti alla buona, il sesso a pagamento mi era costato circa 7000 euro in dodici mesi.
Il sesso “gratis” mi è costato, in un anno, circa 9000.
Aspetta, spiego.
Tra cene, drink, taxi, viaggi per “vederci a metà strada”, regali di compleanno, abbonamento a Spotify condiviso (sì, quello conta), caffè del mattino dopo e tutto il resto… arrivi facile a quella cifra.
Solo che non li paghi tutti insieme, e allora sembra meno. È come l’abbonamento annuale vs microtransazioni.
A livello economico, quindi, la convenienza è relativa.
Ma a livello emotivo? Lì cambia tutto. O meglio: cambia e non cambia.
Perché il sesso gratuito ti dà l’illusione di essere scelto. Pagare ti toglie l’illusione ma ti restituisce il controllo. Sono due forme diverse di bugia, e io credo che abbiamo bisogno di entrambe, a seconda della stagione della vita.
Un episodio (che preferirei non ricordare)
C’è stata una sera, durante il “periodo pagato”, in cui ho provato una specie di nausea morale.
Erano le 3:47 (mi ricordo perché il display del telefono faceva una luce assurda), e avevo ancora la camicia mezza sbottonata. Lei, non dico il nome, dormiva accanto a me.
Ho pensato a mia madre. Non so perché. Mi è venuta in mente lei che dice “i soldi non comprano la felicità”. Mi è venuto da ridere, ma era un riso brutto. Poi ho avuto come un vuoto nello stomaco, tipo vertigine.
Mi sono alzato, sono andato in bagno, ho aperto l’acqua del lavandino solo per coprire il rumore del respiro. Mi guardavo allo specchio e mi sembravo un attore che ha dimenticato la battuta.
Da allora ho iniziato a capire che non è solo una questione di morale. È che certe esperienze, anche se le paghi, lasciano residui. Ti entrano sotto pelle, e quando provi a lavarti via, restano lì.
L’anno gratis, invece, mi ha insegnato la paura
Paura del rifiuto, dell’attesa, del fraintendimento. Di essere frainteso e di fraintendere.
Ho imparato che quando non c’è denaro in mezzo, c’è sempre un altro tipo di debito. Quello emotivo. Ti senti in obbligo di piacere, di rispondere, di restare.
Una volta, con una ragazza conosciuta su Hinge (si chiamava Marta, lavorava in una start-up di Torino), ci siamo visti tre volte. La terza volta, dopo cena, mi ha detto: “Io non voglio niente di serio, eh”.
E io ho risposto: “Neanch’io”. Ma era una bugia. Volevo proprio quello.
Quella sera, tornando a casa in treno, ho pensato che nel sesso gratuito la moneta è la speranza. Nel sesso pagato, è la certezza.
E io, forse, preferivo la seconda.
Il corpo come bilancio
Mi sono accorto che il corpo tiene il conto meglio della testa.
Dopo un anno di sesso a pagamento, mi sentivo fisicamente svuotato ma emotivamente lucido.
Dopo un anno di sesso gratuito, era il contrario: pieno di emozioni, ma stanco da morire.
Una volta, durante una specie di colpo di nostalgia, ho aperto il vecchio sito (sì, quello lì). Ho guardato i profili, senza scrivere a nessuna. Era come rivedere vecchie foto di compagni di classe.
Ho pensato: “Forse dovrei tornare”. Poi ho chiuso la scheda. Poi l’ho riaperta. Poi richiuso. Tre volte.
Il cervello è come un algoritmo: se lo abitui al pagamento, inizia a cercare il bottone “Compra ora”. Se lo abitui alla gratuità, si perde nella pubblicità.
Piccola digressione (anzi no, non la chiamo così)
Una sera, dopo un appuntamento andato male, mi sono fermato in macchina sotto casa. Pioveva. Avevo la radio accesa, una stazione random, credo Radio Deejay. Ho pensato che alla fine stavo solo cercando qualcuno con cui ridere di certe cose, anche stupide.
Ma ridere costa. Costa fiducia, tempo, esposizione.
E allora ho pensato che forse il vero prezzo del sesso…in ogni forma, è il rischio. Il rischio di lasciar entrare qualcuno nella parte più fragile di te.
Dati, numeri, scuse
C’è uno studio non ricordo se di Harvard o di Oxford (forse nessuna delle due), che dice che la felicità derivante dal sesso occasionale dura in media 24 ore. Poi torna tutto com’era.
L’ho letto online, ma potrei sbagliarmi sull’anno. Forse era il 2019.
E ho pensato: “Allora sto spendendo 200 euro per 24 ore di sollievo”.
Poi mi sono chiesto: e quando è gratis? Quanto mi costa ogni ora di speranza?
Le app di dating come supermercato
Tinder è diventato un supermercato delle intenzioni. Scorri, scegli, scarti, confronti recensioni implicite (numero di foto, bio ironica o troppo seria).
Una volta ho passato 40 minuti solo a rispondere alla domanda “che cerchi?”. Non sapevo più dirlo.
Perché dopo aver pagato per un anno, il linguaggio cambia. Ti accorgi che anche le relazioni gratuite usano la logica del mercato: offerta, domanda, valore percepito, fidelizzazione.
Solo che invece di pagare in euro, paghi in vulnerabilità.
Un’ammissione (non piacevole)
L’anno scorso, anzi no, due anni fa credo, ho ricontattato una delle ragazze che avevo visto durante il “periodo pagato”. Non per ripetere l’esperienza, solo per… parlare.
Mi ha risposto dopo un giorno, fredda ma gentile.
Abbiamo preso un caffè in un bar anonimo vicino alla stazione.
Parlava di un nuovo lavoro, di un corso di fotografia, di un gatto. Io le ho detto che avevo smesso. Lei ha sorriso e ha detto: “Non dura mai”.
Aveva ragione.
Due settimane dopo ho ricominciato.
Forse non è una questione di soldi
Forse è solo una questione di controllo. Di sapere esattamente cosa succederà e per quanto durerà.
Il sesso a pagamento è come una canzone con durata fissa: 3 minuti e 45 secondi. Sai quando inizia, sai quando finisce.
Il sesso gratuito è jazz: improvvisazione, confusione, a volte magia, a volte rumore.
Ma, come in tutte le cose, a volte il jazz ti salva.
Ritorni involontari
Ho detto che non ne avrei più parlato, ma… ci ripenso spesso.
Ogni volta che passo davanti a certi hotel, mi viene un nodo in gola.
Ogni volta che apro una chat nuova su Tinder, sento la stessa ansia.
A volte mi sogno di contare banconote ì, non so perché, e poi svegliarmi sudato.
Forse il mio inconscio ha il suo bilancio economico, e non quadra mai.
Conclusione (che non chiude niente)
Non so se ho imparato qualcosa, davvero.
Forse solo che nessuna forma di desiderio è gratis, anche quando sembra.
Che pagare con i soldi è più facile che pagare con sé stessi.
E che a volte la vera truffa non è chi vende, ma chi finge di non comprare mai niente.
L’altro giorno, ho trovato un vecchio scontrino nel portafoglio: 250 euro, datato 14 marzo 2022.
L’ho guardato un po’, poi l’ho rimesso dentro. Non so perché.
Forse per ricordarmi che certe spese non si cancellano.
E poi… basta. Non so più che dire. Forse tra qualche anno…